Tra le tante (e a volte suggestive) ricerche sul processo di addomesticamento del cane, ce n’è una (recente)* secondo la quale i cani sarebbero stati selezionati per la loro tendenza a cercare la compagnia dell’essere umano. In sostanza, i primi esseri umani avrebbero scelto in base a una sorta di “sopravvivenza dei più amichevoli”, vivendo e nutrendo solo i lupi che mostravano interesse per loro.
Sul piano evolutivo, questa selezione avrebbe condotto a una modificazione (assente nel lupo) del cromosoma 6 del DNA nel cane: sarebbero proprio queste alterazioni del genoma a provocare la tendenza del cane a cercare gli esseri umani per il contatto fisico, l’assistenza e l’informazione. Secondo questa ricerca, proprio la modifica del DNA avrebbe creato nel cane una disponibilità anormale a costruire dei rapporti emotivi non solo con gli esseri umani, ma anche con altri animali.
Per i cani, il risultato sarebbe un patrimonio genetico che ha degli aspetti in comune con gli esseri umani affetti dalla sindrome di Williams-Beuren, una malattia rara che provoca, tra l’altro, un atteggiamento di amichevolezza indiscriminata ed immotivata, che può portare, ad esempio, a renderli eccezionalmente gregari.
Secondo questa ricerca – che deve essere ancora approfondita – dietro allo speciale e sofisticato rapporto con l’uomo non ci sarebbero, dunque, le abilità cognitive del cane (in particolare la capacità di comprendere il gesto e la voce) ma molto più semplicemente una modificazione genetica provocata dalla scelta degli uomini del Neolitico di avere accanto a sé un essere capace non tanto di cooperare (=operare insieme per contribuire con l’opera di ciascuno al conseguimento di un fine, così nella caccia come nel governo degli animali) ma piuttosto di dimostrarsi socievole e amicale fino a rendersi subalterno e gregario: peraltro, premesse ottimali per un’evoluzione che non poteva che essere antropocentrica.